Deve essere molto ignorante perché risponde a ogni domanda che gli viene fatta. Voltaire
Vivere senza leggere è pericoloso, ci si deve accontentare della vita.E questo comporta notevoli rischi. Michel Houellebecq
Un tempo era un valore. Chi sapeva di non possederla ambiva a conquistarla. E chi l’aveva la ostentava come un titolo di vanto, come un trofeo. Oggi è esattamente l’opposto. Da valore prestigioso, la competenza è diventata un disvalore. Tutt’al più un optional. Senza più quel crisma di necessità che ha avuto per tanti anni e per tante generazioni. Il competente è guardato con sospetto. Viene immediatamente additato come affiliato a una casta. Come noioso. Come ostacolo vivente al presunto diritto di chiunque di dire qualsiasi cosa su qualsivoglia argomento.
L’incompetente guarda il suo opposto con un misto di invidia, disprezzo e rancore. E fa del suo non sapere (e del non aver nessuna voglia di imparare) quasi un marchio identitario. Ma cosa stiamo perdendo con l’eclissi della competenza? L’etimo ci può aiutare: dal latino cum-petere, la parola irradia un duplice significato.
Peto: chiedere/dirigersi verso.
Cum: farlo insieme.
L’etimo suggerisce e sottolinea tre aspetti fondamentali della competenza. La sua connotazione dinamica e processuale. Essa implica sempre un dirigersi, un andare verso, un muoversi in una certa direzione. Non c’è competenza senza obiettivo, senza meta. È un processo, non uno stato. La sua natura euristica e cognitiva. Il competente è colui che chiede, interroga, ricerca. È colui che chiedendo e interrogando conosce e impara; che apprende e aumenta il suo capitale cognitivo.
La sua natura sociale. Cum-petere. Lo si fa con. Non da soli. Si mette a disposizione della comunità (dell’istituzione, dell’azienda, della famiglia, della società) il proprio percorso di acquisizione di conoscenze. C’è poi anche un quarto aspetto legato alla competenza ed è, letteralmente, la competizione.
Competenza è anche concorrenza. Implica una dimensione di competitività. Dunque: il competente si muove, conosce. Non lo fa solo per sé, lo fa in una prospettiva sociale. Ma il suo dinamismo genera concorrenza e competitività. L’incompetente è l’opposto. Non si muove, sta fermo. Non conosce, non chiede, non si interroga. Ignora. Conosce solo l’io, non il noi.
Aborre la concorrenza. Ha paura della competitività. Una società che dileggia la competenza, che afferma che chiunque può fare qualsiasi cosa, che sostiene l’equivalenza di tutti a prescindere dalle conoscenze, dallo studio, dalla performatività, finanche dal talento, è una società statica, abulica, bloccata su se stessa, incapace di trasformarsi.
Se un vice-primo ministro può pronunciare impunemente, senza che nessuno scoppi a ridere, una frase come “Noi non ci occupiamo dello spread ma dei cittadini italiani” (è accaduto il 17 maggio 2019), è perché sa che nessuno metterà in discussione l’incompetenza della sua affermazione: l’incompetenza è condivisa con i suoi elettori, con quelli che egli chiama cittadini ma che sono solo sudditi, proprio perché privi della competenza che li porterebbe a ridere di fronte a una frase nonsense come questa.
Col tempo, il dileggio e il disprezzo della competenza, diffusi e capillari, hanno prodotto nell’Italia contemporanea una disarmante diffusione dell’ignoranza. I dati riportati dai media del luglio 2019 relativi ai test Invalsi effettuati sugli studenti delle scuole superiori sono sconfortanti: quasi la metà dei maturandi è analfabeta in matematica. Solo il trentacinque per cento dei ragazzi delle superiori ha un livello soddisfacente di comprensione della lingua inglese.
In alcune regioni italiane – per esempio in Calabria – il settanta per cento dei ragazzi che frequentano istituti tecnici e professionali non è in grado di usare e comprendere correttamente la lingua italiana e non possiede “quelle competenze di base che dovrebbero permettere di leggere un biglietto del treno, il bugiardino di un farmaco, un articolo di giornale” (Corriere della sera, 11 luglio 2019, p.19). Questo non è uno dei tanti problemi italiani. Questo è il problema. Perché quando l’ignoranza dilaga, e si fa sistema, diventa ignorantocrazia. Genera forme distorte di consenso e di potere. E mette in discussione le basi stesse della democrazia.
Questo libro nasce dalla presa d’atto di questo quadro sconfortante. Cerca di ragionare sulle cause, le reticenze, le omissioni e le complicità che l’hanno generato. E lo fa, o quanto meno cerca di farlo, a partire dalla convinzione che non c’è democrazia politica senza democrazia delle competenze. E che in assenza di una vera democrazia culturale – matura, diffusa e condivisa – la democrazia politica è priva della sua base ontologica, cioè della condizione primaria che la dovrebbe garantire.
2019
Gianni Canova tocca uno dei nervi scoperti del dibattito culturale in Italia, senza sconti per nessuno dei soggetti coinvolti: L'Italia del XXI secolo è diventato un paese culturalmente anoressico: dopo il neorealismo dell'immediato dopo-guerra mancano riferimenti culturali riconosciuti a livello internazionale e un paesaggio di consumo culturale degno di un paese sviluppato. Mentre l'intellettuale progressista-elitarista si gongola tra i suoi idoli (denaro, mostre e popolarità), l'unica vera rivoluzione culturale del XX secolo sembra rimasta quella del cinema. La domanda di fondo del saggio rimane: è possibile rianimare o costruire una nuova democrazia culturale nel Belpaese?